2. Il finanziamento della scienza (di base) e i trend storici

Che la ricerca di base sia assolutamente indispensabile, più che utile lo dimostra il fatto che nella storia la spesa dei governi per ricerca di base è sempre cresciuta, e in particolare è cresciuta in modo esponenziale a cavallo delle grandi crisi e delle guerre mondiali, e durante la guerra fredda. La spesa per ricerca di base ha raggiunto valori enormi in alcuni casi (circa il 2% del PIL negli USA era destinato dal governo alla ricerca durante gli anni 60). Negli Stati Uniti tra il 1950 e la fine degli anni ’60 la spesa destinata a ricerca e sviluppo è cresciuta a un tasso del 15% all’anno, mentre il prodotto interno lordo cresceva a un ritmo quasi tre volte inferiore (3.5% di crescita all’anno).

La tabella seguente mostra l’evoluzione della spesa totale per ricerca e sviluppo in sei nazioni (Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti e Cina) dal 1981 al 2015. La spesa totale include la frazione proveniente dai governi (spesa pubblica), quella proveniente dalle industrie e dalle imprese private (spesa privata) e quella proveniente dall’estero (in Europa questa voce può essere anche molto rilevante, a causa della struttura di finanziamento per la ricerca da parte dell’Unione Europea. Torneremo su questo punto nel seguito). La spesa totale per ricerca e sviluppo, in termini di $ rivalutati al 2010, è cresciuta costantemente nel tempo in tutte le nazioni considerate, anche se con tassi diversi. Negli Stati Uniti la spesa è triplicata tra il 1981 e il 2015, in Italia, Francia Germania è aumentata tra 2.2 e 2.5 volte, nel Regno Unito solo del 60%. In Cina la spesa è aumentata addirittura di circa 30 volte in meno di 25 anni, dal 1991 al 2015. Oggi viviamo nel momento storico in cui più si investe in ricerca e sviluppo. Questo fatto accresce naturalmente le responsabilità di tutti noi ricercatori contemporanei, e forse spiega un poco le tirate antiscientifiche discusse nel Prologo. Oggi la scienza non è una attività di nicchia, brucia una discreta quantità di soldi, almeno in termini assoluti, e coinvolge una frazione importante della società. Non è più invisibile, e quando una cosa la si vede bene, quando diventa ingombrante, è possibile che da parte di qualcuno nasca la naturale domanda: a che serve? Non è che se ne può anche fare a meno? In maniera da liberare spazio e risorse?. Non è però tutto oro quello che luccica, e nel seguito vedremo perché.

Tabella 1: Spesa in ricerca in miliardi di $ rivalutati al 2010, e intensità di spesa, ovvero la frazione della spesa in ricerca su PIL.

Anno Italia Francia Germania UK USA Cina
2017 Totale 28.0  1.35% 55.5    2.19 110.6          3.04 43.2    1.66 483.7    2.79 444.8    2.15
2015 Totale 27.0 1.34% 55.6 2.27% 101.6 2.92% 41.8 1.67% 456.9 2.74% 374.9 2.06%
2010 Totale 25.4 1.22% 50.9 2.18% 87.0   2.71% 37.6 1.67% 410.1 2.74% 213.5 1.71%
2001 Totale 21.4 1.04% 45.2 2.14% 71.1   2.39% 33.1 1.62% 333.2 2.64% 57.3   0.94%
1991 Totale 19.8 1.15% 38.7 2.28% 60.7   2.40% 28.1 1.87% 236.8 2.61% 13.4    0.72%
1981 Totale 11.3 0.83% 24.8 1.87% 40.6   2.35% 25.2 2.24% 151.8 2.27%
2015 Pubblico 0.51% 0.79% 0.81% 0.46% 0.70% 0.44%
2010 Pubblico 0.51% 0.81% 0.82% 0.54% 0.89% 0.41%
2001 Pubblico 0.50% 0.79% 0.75% 0.47% 0.73% 0.30%
1991 Pubblico 0.57% 1.11% 0.86% 0.66% 1.02%
1981 Pubblico 0.39% 1.00% 0.98% 1.08% 1.08%
2015 Privato 0.67% 1.23% 1.91% 0.82% 1.71% 1.54%
2010 Privato 0.55% 1.17% 1.78% 0.74% 1.56% 1.23%
2001 Privato 0.42% 1.16% 1.57% 0.74% 1.77% 0.5%
1991 Privato 0.51% 0.97% 1.48% 0.93% 1.47%  
1981 Privato 0.42% 0.76% 1.34% 0.94% 1.12%  

Fonte OECD Main Science and Technology Indicators: http://www.oecd.org/sti/msti.htm

L’incremento di spesa in ricerca è più modesto se lo si calcola rispetto al prodotto interno lordo (la così detta intensità di spesa, il rapporto tra spesa per ricerca e sviluppo e PIL, un indicatore il PIL che è cresciuto molto nei paesi considerati negli ultimi 40 anni). In Italia si è registrata dal 1981 al 2015 una crescita di circa il 60% dell’intensità di spesa in ricerca e sviluppo. In Francia e Germania una crescita di tra il 20% e il 25%, nel regno unito addirittura una decrescita del 25%. In Cina l’intensità di spesa è cresciuta di circa 3 volte.  Va però notato che mentre in Cina solo il 25% del totale della spesa va a finanziare la ricerca di base, in Italia e Francia la frazione è di circa il 50% (35% in UK).

Un quadro ancora più istruttivo si può avere se si divide la spesa totale in ricerca e sviluppo tra spesa pubblica (università pubbliche, centri di ricerca pubblici) e spesa privata (industrie, imprese, aziende private, centri di ricerca privati, ricerca questa spesso legata molto più direttamente al mercato della ricerca pubblica). La tabella riporta quindi anche l’andamento dell’intensità di spesa in ricerca e sviluppo per i settori pubblici e privati.

Per quanto riguarda il settore privato, si è verificato un aumento dell’intensità di spesa in tutti i paesi considerati eccetto che nel Regno Unito. È da notare che nella spesa per ricerca nel settore privato sono considerati anche i risparmi dovuti ad una tassazione agevolata per assunzione di nuovi ricercatori nelle imprese.

I trend sono purtroppo differenti per quanto riguarda il settore pubblico dei paesi occidentali. In Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti l’intensità di spesa nel settore pubblico è sempre diminuita dal 1981 al 2015, di circa il 20% in Francia e Germania, del 30% negli Stati Uniti, e addirittura si è più che dimezzata nel Regno Unito. In Francia, Italia e Stati Uniti la decrescita è cominciata, o comunque è aumentata dal 1990, e forse la coincidenza con la caduta del muro di Berlino non è casuale. In Italia si sono verificate oscillazioni significative, con un massimo di intensità di spesa nel 1991, una diminuzione fino agli anni 2000, e una intensità di spesa pubblica costante dal 2001 al 2015. Nel Regno Unito la decrescita è cominciata prima, ed è coincisa con le politiche di tagli e di austerità dei governi Thatcher all’inizio degli anni ‘80. Il caso del Regno Unito merita un ulteriore approfondimento. In questo paese il governo investe in ricerca e sviluppo una frazione del PIL addirittura inferiore a quella investita dal governo italiano, 0.46% contro 0.51%. Per il settore privato l’investimento in UK è solo poco maggiore a quello italiano, 0.82% contro 0.67%. Dove il Regno Unito ci distanzia, e veramente di molto, è nella capacità di attrarre risorse dalla Comunità Europea, lo 0.29% del suo PIL contro lo 0.11% dell’Italia. In termini assoluti, quasi 7.1 miliardi di $ l’anno contro 2.24 miliardi di $ per l’Italia (dati 2015). È chiaro che senza una iniezione di fondi che compensi la perdita, la Brexit per la ricerca nel Regno Unito non sarà un buon affare.

In complesso l’Italia appare debole nel confronto con altri paesi molto sviluppati. Spende in ricerca e sviluppo poco più che la metà della Francia, meno di un terzo della Germania. Mentre il finanziamento pubblico è grossomodo confrontabile con quello degli altri paesi occidentali, le debolezze maggiori emergono nel settore privato e nella capacità dell’Italia di attirare fondi dall’estero, in particolare i fondi della Comunità Europea.

La perdita di competitività del sistema della ricerca pubblica nei paesi occidentali sembra quindi un trend consolidato. Nei primi anni dopo la crisi finanziaria del 2008 si è assistito ad una inversione di tendenza, determinata dal fatto che molti governi hanno pensato di supplire ad una momentanea riduzione delle risorse dedicate alla ricerca da parte del settore privato o aumentando la spesa pubblica per ricerca, o introducendo leggi che prevedevano riduzioni fiscali per le aziende che più investivano in ricerca e sviluppo. Purtroppo il trend è terminato rapidamente, e gli ultimi anni hanno visto raggiungere il minimo di intensità di spesa pubblica in ricerca dagli anni ‘60. Fortunatamente per loro, in molti paesi orientali si assiste a trend diametralmente opposti. In Cina tra il 2001 e il 2015 l’intensità di spesa pubblica nella ricerca è aumentata di quasi il 50%, in Giappone è rimasta costante e in Corea è quasi raddoppiata. L’Intensità di spesa totale in ricerca di Giappone è Corea del sud è particolarmente alta, il 3.3 e 4.2 % del PIL rispettivamente.

Tabelle come la precedente inducono la tentazione di mettere direttamente in relazione la crescita del PIL di un paese con l’intensità di spesa in ricerca e innovazione. E infatti questo esercizio è stato fatto numerosissime volte, e la letteratura specializzata include centinaia di articoli che trattano l’argomento. Le conclusioni di questi articoli sono in generale che l’innovazione indotta da ricerca e sviluppo è un fattore fondamentale per garantire la crescita economica di un paese, la sua produttività e la qualità della vita. Il grafico che segue mostra la relazione tra PIL e spesa per ricerca e sviluppo per 5 paesi occidentali (Francia, Germania, UK, Italia e USA) e tre asiatici (Cina, Korea e Giappone) dal 2000 al 2014 inclusi.

PIL per abitante verso la spesa per ricerca e sviluppo sempre normalizzata al numero di abitanti in $ rivalutati al 2010 (Fonte MSTI)

Si nota una correlazione positiva tra PIL e spesa per ricerca e sviluppo, sia considerando i dati globali (i paesi che spendono meno in ricerca e sviluppo come l’Italia hanno anche un PIL più basso), che i dati di ogni singolo paese (eccetto l’Italia, dove l’effetto della crisi del 2008-2009 è stato più accentuato sia come valore assoluto che come durata). Le normalizzazioni delle correlazioni dei dati per ogni paese sono spesso molto diverse tra loro, in particolare le normalizzazioni per i paesi asiatici sono più basse che per i paesi occidentali. Ovvero, per una data spesa pro capite in ricerca e sviluppo il PIL pro capite dei paesi occidentali è più alto di quello dei paesi asiatici. La Cina ha avuto incrementi spettacolari sia per quanto riguarda il PIL pro capite che la spesa per ricerca e sviluppo, circa il triplo di quello che si è verificato in tutti i paesi occidentali nello stesso lasso di tempo.

La crescita del PIL verso la crescita della spesa in ricerca e sviluppo dal 2001 al 2014 (fonte MSTI). La linea nera rappresenta una crescita delle due variabili con lo stesso tasso. Si nota come nella maggior parte degli anni la crescita per ricerca e sviluppo sia stata maggiore che la crescita del PIL, in particolare per le nazioni asiatiche emergenti (Cina e Korea).

Il grafico a destra confronta la crescita del PIL nei paesi considerati verso la crescita della spesa in ricerca e sviluppo negli anni tra il 2001 e il 2014 compresi. Si nota come nella maggior parte degli anni la crescita per la spesa in ricerca e sviluppo sia stata maggiore della crescita del PIL. In particolare, per nazioni emergenti come Cina e Korea questo è sempre vero (eccetto un singolo anno per la Korea). In Cina la crescita per la spesa in ricerca e sviluppo è stata in media del 50% superiore alla crescita del PIL, in Korea addirittura il doppio. Tra i paesi occidentali quello che mostra la maggiore differenza tra crescita della spese per ricerca e sviluppo  e crescita del PIL è la Germania. Questi sono i paesi che esplicitano maggiormente l’intenzione di consolidare la crescita negli anni a venire tramite un forte investimento verso l’innovazione. E’ anche da notare come nell’anno successivo alla grande crisi del 2008, si sia verificata una decrescita dell’investimento in ricerca e sviluppo in tutti i paesi occidentali considerati, tranne che la Francia.

Grafici di questo tipo non devono però essere sovra-interpretati. Le relazioni tra spesa in ricerca e sviluppo e crescita o benessere sono molto più complicate di quello che il grafico potrebbe suggerire, per almeno sei buoni motivi:

1. La correlazione nel grafico precedente non ci dice quale sia la causa e quale l’effetto, solo che esiste una correlazione tra le due quantità. Solo dall’analisi del grafico non possiamo dire se il PIL cresce a causa della spesa in ricerca o se la spesa in ricerca è sistematicamente più alta nei paesi con un PIL maggiore.

2. Se anche il PIL dovesse dipendere dalla spesa in ricerca e sviluppo, certamente questa non sarà l’unica variabile. La crescita del PIL dipenderà da molte altre variabili, il cui peso può cambiare da paese a paese. Ad esempio, la spesa per la costruzione di armi fa crescere il PIL, e questa spesa è certamente più grande negli Stati Uniti piuttosto che in Germania. Uno dei maggiori fattori di crescita del PIL pro capite nel mondo nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale è stato l’incremento di produzione di energia tramite fonti non rinnovabili (carbone, petrolio, gas[1]). A partire dalla seconda crisi petrolifera del 1979 il consumo di energia da combustibili fossili per abitante non e’ piu’ cresciuta, e infatti la crescita annuale media del PIL mondiale si e’ grandemente ridotta rispetto al trentennio precedente, attestandosi su percentuali attorno a qualche %. È evidente che la limitatezza di queste risorse, o almeno la limitatezza di combustibili fossili estraibili con tecniche convenzionali a costi bassi, per non parlare dell’emergenza climatica, rende semplicemente impossibile basare una futura robusta crescita del PIL sulla produzione di energia da combustibili fossili. Tornerò su questo punto fondamentale nei capitoli 12 e 13.

3. I benefici degli investimenti in ricerca e sviluppo fatti in un certo anno certamente non si esauriscono nel corso dell’anno in esame, e non influenzano solo il PIL relativo a quell’anno. Come abbiamo discusso nei capitoli precedenti possono passare anche 50 o 100 anni da una scoperta scientifica fondamentale e le sue applicazioni pratiche. In figura abbiamo analizzato i trend degli ultimi quindici anni, ma senza introdurre alcun ritardo tra intensità di spesa in ricerca e sviluppo e PIL. In letteratura si trovano comunque analisi che considerano ritardi tra spesa in ricerca e sviluppo e i relativi effetti, che confermano una influenza positiva tra questi investimenti e la crescita economica di un paese.

4. Nonostante i recenti tentativi protezionisti e sovranisti in qualche paese come gli Stati Uniti, viviamo in un mondo eccezionalmente globalizzato. Che significa anche che aborigeno australiano può beneficiare facilmente dell’innovazione scientifica e tecnologia statunitense o cinese o giapponese o fatta da multinazionali (per parafrasare un famoso sketch di Corrado Guzzanti[2]). O in altre parole, una ditta veneta può usare un brevetto fatto da una multinazionale, basato su una ricerca fatta da un team di ricercatori di quattro o cinque paesi, e poi basare la produzione in Brasile o in Romania. È difficile stabilire in questo caso dove sia basata la spesa in ricerca e sviluppo e dove poi questa spesa abbia avuto un effetto.

5. Il PIL è un indicatore di crescita piuttosto rigido[3]. Considera solamente elementi di mercato, ed esclude fattori fondamentali nella misura della produzione del benessere e della crescita come l’economia domestica (la produzione di beni e servizi effettuata nelle famiglie, senza scambio economico), il depauperamento delle risorse ambientali (tagliare foreste, bruciare carbone, costruire centrali nucleari fa crescere il PIL, perché non vengono considerate poi le spese che servono per mettere in sicurezza il territorio, diminuire la concentrazione di CO2 in atmosfera o smaltire le scorie nucleari). Sarebbe quindi necessario correlare la spesa per ricerca e sviluppo anche con altri indicatori di benessere e qualità della vita. L’OECD ha introdotto nel 2010 e sviluppato durante gli anni a seguire un indicatore di benessere e qualità della vita che può essere utilizzato a questo scopo[4]. L’indicatore utilizza dati raccolti nelle seguenti undici dimensioni: 1) reddito; 2) alloggi; 3) lavoro, quantità e qualità; 4) importanza e impatto della comunità; 5) formazione scolastica; 6) qualità dell’ambiente; 7) qualità del governo nazionale e locale; 8) salute; 9) soddisfazione della vita; 10) sicurezza; 11) equilibrio vita-lavoro. Il pannello di sinistra della figura che segue mostra questo indice di benessere relativo alla media europea calcolato durante il 2015-2016 in quindici paesi, in funzione della spesa per ricerca e sviluppo per abitante negli anni subito prima della crisi del 2008. L’idea è verificare se un investimento in ricerca è sviluppo ha prodotto o meno un alto grado di benessere negli anni successivi all’investimento, o almeno un miglioramento del benessere. Le frecce mostrano infatti la variazione del benessere o della spesa per ricerca e sviluppo tra il 2015 e gli anni 2005-2007 (la proiezione della lunghezza della freccia sui due assi è proporzionale alla variazione del benessere o della spesa per ricerca e sviluppo. Se la direzione della freccia è rivolta verso l’alto si è avuto un miglioramento del benessere, se è rivolta verso destra si è avuto un aumento in spesa per ricerca e sviluppo, se la direzione è rivolta a 45 gradi si sono avuti incrementi simili di benessere e di spesa in ricerca e sviluppo).


Indice di benessere riportato in How’s life 2017 e la sua variazione tra 2015-2016 e gli anni pre crisi del 2008, in funzione della spesa pro-capite in R&D nel 2007 e sua variazione tra il 2015 e il 2007. Per la Cina l’indice di benessere non e’ presente nella pubblicazione OECD, ed e’ stato calcolato in maniera approssimata, utilizzando la correlazione tra benessere e PIL (al netto del grande scatter).

È evidente una correlazione molto forte tra benessere e spesa per ricerca e sviluppo, ed è anche evidente come i paesi che più hanno aumentato la spesa per ricerca e sviluppo più anno migliorato il benessere medio della popolazione. Paesi come Italia e Grecia che investono relativamente poco in R&D, o che non hanno aumentato in maniera significativa l’investimento, hanno visto peggiorare significativamente il benessere medio della popolazione tra il 2015 e gli anni pre-crisi. Tutti i paesi con una qualità della vita alta o comunque molto migliorata nell’ultimo decennio, spendono molto in R&D, oppure hanno molto aumentato questa spesa. La spesa in R&D è un forte indicatore di quanto un paese crede nell’innovazione come motore per la crescita e il benessere, ma non è l’unico. La Comunità Europea pubblica ogni anno The European Innovation Scoreboard[5] dove misura le prestazioni verso l’innovazione in una serie di paesi europei e non. L’indice generale di innovazione utilizza 27 indicatori suddivisi in dieci dimensioni: 1) risorse umane, frazione di laureati; 2) attrattiva del sistema ricerca, migliori pubblicazioni, frazione di studenti stranieri nel dottorato di ricerca; 3) ambiente adatto all’innovazione, penetrazione della banda larga, opportunità per l’imprenditoria; 4) spesa pubblica in R&D; 5) spesa in R&D da parte del settore privato; 6) frazione delle piccole e medie imprese che ospita processi verso l’innovazione; 7) collaborazione tra ricerca pubblica e privata; 8) numero di applicazioni per brevetti e trademarks; 9) frazione di occupati in attività legate all’innovazione; 10) esportazione di prodotti di high-tech. La figura che segue mostra l’indice di benessere in funzione dell’indice di innovazione relativo alla media europea. Anche in questa figura è evidente una forte correlazione tra le due quantità. I paesi con un maggiore benessere medio sono quelli con un maggiore tasso di innovazione.


Indice di benessere riportato in How’s life 2017 e la sua variazione tra il 2015-2016 e gli anni pre crisi del 2008, in funzione dell’indice di innovazione nel 2010 e sua variazione tra il 2017 e il 2010, come riportato nell’European Innovation Scoreboard 2018.

6. C’è infine una considerazione più generale, che affligge tutti questi tipi di statistiche, ed è che se è importante valutare quale è la ricchezza o il benessere medio di un paese e quanto questi sono influenzati dall’investimento in ricerca e sviluppo, è altrettanto importante capere come la ricchezza e il benessere sono distribuiti all’interno di un Paese, così come è distribuito l’accesso all’innovazione. In altre parole, è indispensabile analizzare oltre alle medie anche le distribuzioni, ovvero le disuguaglianze geografiche, economiche e sociali.  La pubblicazione dell’OECD How’s life 2017 analizza sia le disuguaglianze orizzontali (ad esempio quelle tra uomini e donne, giovani e anziani e tra minoranze e popolazione media) e le disuguaglianze verticali (quelle tra ricchi e poveri).

Indice di diseguaglianza verticale verso indice di innovazione

La figura sopra mostra l’indice di disuguaglianza verticale riguardo al benessere (la differenza in benessere tra il 20% più ricco e il 20% più povero della popolazione) in funzione dell’indice in innovazione. Trend così chiari come quelli nelle figure precedenti non sono qui presenti. Evidentemente il grado di innovazione di un paese non è tra i motori principali che possono ridurre (o amplificare) le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Sono però presenti nella figura delle indicazioni interessanti. Le disuguaglianze sono minori nei paesi del nord Europa e nei paesi asiatici che più sono caratterizzati da innovazione. Le disuguaglianze sociali sono più grandi nei grandi paesi europei come Francia, Germania e UK, sempre ad alto tasso di innovazione, e sono poi altissime negli Stati Uniti. In generale, purtroppo, l’aumento in investimento in ricerca e sviluppo e quello del tasso di innovazione non sono riusciti a ridurre le disuguaglianze verticali, quelle tra ricchi e poveri, e neanche quelle orizzontali, in particolare quelle tra giovani e anziani e tra persone molto o poco istruite. In un momento storico in cui queste disuguaglianze stanno aumentando, almeno nei grandi paesi occidentali, questo può essere considerato come una delle radici della cattiva pubblicità di cui gode oggi la scienza a cui accennavamo nel prologo. I motivi per i quali ricerca e innovazione non sembrano efficienti a ridurre le disuguaglianze sia verticali che orizzontali, possono essere tanti. Il più semplice e diretto è che il costo di una innovazione può essere talmente alto da poter essere fruibile solo dalla fascia più abbiente della popolazione. In un capitolo successivo farò un esempio di questo tipo quando confronterò la scoperta del motore a combustione interna con quella della catena di montaggio. La prima ha rappresentato sicuramente una gigantesca innovazione, ma fino allo sviluppo delle catene di montaggio questa innovazione era troppo costosa per essere fruita dalla maggior parte della popolazione. Un altro esempio è lo sviluppo di protocolli di cura efficienti per il controllo dell’AIDS. Tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni 2000 questi protocolli erano estremamente costosi, tra 10.000 e 15.000$ l’anno per ammalato, e quindi solo le élite più ricche delle società più ricche potevano averne accesso. Tenendo conto che il 95% degli ammalati si registrava in paesi a basso reddito, in particolare nei poverissimi paesi dell’Africa sub-sahariana, questo significava che molto meno dell1% degli ammalati aveva accesso a cure. La situazione migliorò fortunatamente in pochi anni, quando il prezzo dei trattamenti scese fino a 150$ a paziente all’anno, grazie al fatto che in diversi paesi importanti come il Brasile, i farmaci antiretrovirali non erano soggetti a brevetto, e questi paesi cominciarono a produrre farmaci antiretrovirali generici, che poi si diffusero quasi istantaneamente in tutto il mondo. Un caso certamente positivo di globalizzazione. Il secondo grande motivo è che per fruire appieno di una innovazione è naturalmente necessario avere una buona preparazione tecnica e culturale. Per scrivere un programma per un computer, ma anche solo per utilizzarlo al meglio il computer, è necessario avere una qualche nozione di informatica. Per trovare un’area di applicazione nel mercato di una innovazione è necessario conoscere l’innovazione, e il mercato, nel dettaglio. Tutto questo divide istantaneamente la società in tre parti: chi è semplicemente in grado di utilizzare una innovazione, chi la utilizza ma la sfrutta anche per guadagnarci e chi non è in grado né di utilizzarla né tantomeno di guadagnarci. Un esempio tra i tanti che si possono fare: c’è chi è in grado di usare al meglio uno smartphone, utilizzando la maggior parte delle sue funzioni, chi riesce a concepire e scrivere applicazioni che poi può vendere sul mercato, e chi davanti ad uno smartphone si chiede dove siano i tasti per formare un numero di telefono. Quindi le parti più colte di una società, che spesso sono anche quelle più ricche, sono le prime non solo ad avere accesso ad una data innovazione o una data tecnologia, ma anche a poterla sfruttare al meglio e a trarne i primi benefici, anche economici, che vanno ad incrementare ulteriormente la ricchezza. Questo feedback negativo porta naturalmente ad aumentare la distanza tra la parte di popolazione più ricca e colta verso quella più povera e meno preparata.

E’ evidente che tra lo sviluppo di innovazione e la sua fruizione da parte di una fetta grande di società, e in particolare da parte della fetta meno abbiente e meno istruita della società esiste un ritardo. Questo ritardo può avere origini tecniche, la difficoltà di standardizzare i processi innovativi, o politiche, o culturali o sociali. E il ritardo come ricordato sopra è sempre minore per la parte più ricca e colta della società. Possono la scienza e i ricercatori intervenire per ridurre questo ritardo nella fruizione di innovazione? Certamente è necessario che i ricercatori siano più consapevoli del loro ruolo sociale, e si sentano coinvolti nei processi di diffusione dell’innovazione che producono. Ma il ruolo maggiore sicuramente lo hanno le politiche culturali che una società o un paese riesce a mettere in atto. Da questo punto di vista bisogna dire che lavorare e vivere in Italia non aiuta.  Come ho mostrato sopra l’Italia è uno dei paesi con la minore spese per ricerca e sviluppo pro-capite, il minore tasso di innovazione, ed è anche quello con la minore frazione di laureati tra la popolazione, solo il 19% (popolazione di età tra 25 e 64 anni, dati del 2018, fonte OECD) contro il 37% della Francia, il 29% della Germania il 47% degli Stati Uniti, 49% della Corea del Sud, il 52% del Giappone. Un dato anche più interessante è la frazione di laureati tra i giovani, perché questo ci può dire qualcosa anche del futuro. In Italia la frazione di minori di 34 anni che è laureata è del 27%, contro il 47% della Francia, il 61% del Giappone e addirittura il 70% della Corea del Sud. Da notare che le percentuali in Italia sono circa raddoppiate nei primi anni 2000 dopo l’introduzione della laurea triennale breve (simile al bachelor degree delle università anglosassoni).

I numeri spesso sono noiosi ma nella loro semplicità sono anche impietosi. Sembra evidente che nel nostro paese sia necessario un cambio di rotta davvero radicale, su  almeno due punti prioritari:

  1. Riallineare la spesa per ricerca e sviluppo a quella di altri grandi paesi industrializzati, soprattutto per quello che riguarda la spesa del settore privato.
  2. Migliorare drasticamente il livello di istruzione della popolazione, e in particolare raddoppiare almeno la frazione di popolazione che raggiunge una laurea.

Prossima pubblicazione: 26 gennaio 2020. 3. Quanti sono e chi sono i ricercatori


[1] Gael Giraud, Transizione Ecologica, EMI 2015

[2] https://www.youtube.com/watch?v=IgnnNRJpicM

[3] Lorenzo Fioramonti, Presi per il PIL. Tutta la verita’ sul numero piu’ potente del mondo. Ed. L’Asino d’Oro 2012

[4] OECD How’s life 2017 https://read.oecd-ilibrary.org/economics/how-s-life-2017_how_life-2017-en

[5] European Innovation Scoreboard 2018, https://ec.europa.eu/docsroom/documents/33147