9. Le forze propulsive per la ricerca

Un altro trend interessante da analizzare è quello concernente le forze propulsive per la ricerca. Nella storia le maggiori forze propulsive per la ricerca sono state l’immaginazione, la curiosità e l’ambizione di scoperta. Einstein sosteneva come l’immaginazione fosse addirittura più importante della conoscenza stessa. Feynman definiva la creatività scientifica come “immaginazione in una camicia di forza”. Ma la definizione forse piu’ bella del potere creativo dell’immaginazione viene da un non scienziato: Paul Mc Cartney. In una delle sue canzoni più belle e famose scrive: “but the fool on the hill sees the Sun going down, and the eyes in his head see the world spinning round”. E’ l’immaginazione, gli occhi nella testa dello sciocco (ma non tanto..) sulla collina, che riescono a tradurre una osservazione pure bellissima ma banale, il sole che tramonta, in un fatto sorprendente, il sole tramonta perché la Terra gira su se stessa. 

L’immaginazione si fonde con la curiosità nella famosa affermazione del Duca di Wellington: ho speso tutta la mia vita a cercare di indovinare cosa ci fosse dall’altra parte della collina. Di più: tutta l’arte della guerra è indovinare cosa ci sia dall’altra parte della collina. Wellington è stato un generale tanto famoso quanto bravo e fortunato, non certo uno scienziato. La sua era l’arte della guerra, non quella di sfogliare il libro della natura e dell’Universo. Nondimeno, la stessa affermazione di Wellington la si può usare anche a proposito della scienza: tutta l’arte della scienza è capire cosa c’è dall’altra parte della collina.

E infine l’ambizione, o meglio l’ambizione di conoscenza, la forza che ci porta a voler capire come funziona la Natura. James Cook è probabilmente quello che ha descritto meglio il concetto. Durante l’esplorazione dell’Antartide scriveva nei suoi diari: “L’ambizione mi porta non solo più lontano di quanto sia stato raggiunto da altri uomini prima di me, ma tanto lontano quanto io penso sia possibile per un uomo andare”.  Non vi suona familiare? Non è un caso che la frase di Cook sia stata ripresa poi negli anni 60’ come incipit di una famosa serie di fantascienza, Star Trek.

Tutte le ricerche e le scoperte presentate nei capitoli precedenti sono state stimolate dall’immaginazione, dalla curiosità e dall’ambizione. Non è un caso che l’ESA, l’agenzia spaziale Europea, che ha immaginato prima e realizzato poi Rosetta, per celebrare la missione abbia realizzato un film che si intitola per l’appunto “Ambition”[1].

L’immaginazione la curiosità producono l’ideazione di un esperimento, o meglio un programma, guidati solamente dall’ambizione di risolvere un problema scientifico. Programmi così ideati possono ambire a diventare “moonshot”. Mi piace spiegare meglio questo punto cruciale raccontando due esempi illuminanti. Il primo è il percorso che ha ideato e poi seguito Riccardo Giacconi, e che lo ha portato alla scoperta del fondo cosmico in raggi X prima, e alla sua spiegazione poi. Scoperta che gli ha valso il premio Nobel per la Fisica nel 2006. Il secondo esempio è più recente, ed è culminato il 10 aprile 2019 nella divulgazione della prima istantanea dell’orizzonte degli eventi di un buco nero (super-massiccio in questo caso, qualcosa di simile al Gargantua di Interstellar).

9.1 Il fondo cosmico in raggi X e l’ardita ricerca per la sua comprensione

Assieme alla prima storia sono cresciuto professionalmente, e quindi ci sono particolarmente affezionato. La ho sentita spiegata a lezione quando ero uno studente in fisica nei primi anni 80, la racconto oggi ai miei studenti come esempio di come si deve e si può fare scienza. La storia comincia alla fine degli anni 50, quando Riccardo Giacconi assieme a Bruno Rossi lavoravano al Massachusetts Institute of Technology, MIT, a Cambridge, negli Stati Uniti. Grazie allo sviluppo di razzi durante la seconda guerra mondiale si era appena riusciti ad aprire una astrofisica nuova, quella che utilizzava i raggi X, radiazione energetica che fortunatamente per la vita non penetra l’atmosfera. Il che significa che per misurarla è necessario appunto uscire dall’atmosfera terrestre, cosa che i primi razzi permettevano per la prima volta di fare. La prima sorgente X osservata con un volo di razzo che portava a bordo un rudimentale contatore Geiger fu naturalmente il Sole. Questa era stata assieme un breakthrough, un risultato che poteva aprire nuovi campi, e una pessima notizia. Il Sole emette raggi X dalla sua corona, ma il livello di emissione è molto basso, circa un decimilionesimo della luce emessa in banda ottica. Questo significava che con la rudimentale strumentazione disponibile all’epoca anche la stella più vicina a noi dopo il Sole, Alpha Centauri, sarebbe stata difficilissima da rivelare in raggi X. Le stelle più lontane assolutamente impossibili da osservare.

Sembrava che una nuova astrofisica fosse appena nata per dover morire subito dopo. Non per Riccardo Giacconi e Bruno Rossi. Giacconi e Rossi erano si erano al contrario convinti che il cielo dovesse essere pieno di sorgenti X abbastanza potenti da poter essere osservate. La convinzione non era basata sui dati disponibili all’epoca, che come ho spiegato sopra anzi, suggerivano il contrario, ma sul fatto che le sorgenti cosmiche potessero essere alimentate da processi di emissione diversi da quello che si sapeva era alla base dell’emissione del Sole, l’emissione termica di corpo nero. Lo spettro tipico di un corpo nero crolla molto velocemente alle alte energie, crolla in una maniera più rapida che una decrescita esponenziale, che già è ultra-rapida. Se le sorgenti cosmiche fossero tutte alimentate da emissione di corpo nero e se le temperature di questi corpi neri fossero tutte più o meno quella del sole (migliaia di gradi) non ci sarebbe stata speranza. Fortunatamente per Giacconi e Rossi, e anche per l’astrofisica in generale, entrambe le affermazioni risultarono sbagliate. Come si era cominciato a capire tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60, molte sorgenti cosmiche possono essere alimentate da radiazione non termica, sincrotrone o effetto Compton inverso. In questi casi la decrescita del flusso ad alte frequenze è molto più blanda che per un corpo nero, seguendo una legge di potenza, con una pendenza logaritmica anche abbastanza piatta. C’era la possibilità di avere molti fotoni disponibili alle energie caratteristiche dei raggi X. Per di più, anche nel caso di emissione di corpo nero, è ben possibile che alcune sorgenti posseggano temperature altissime, milioni di gradi, per le quali il picco di emissione è proprio nei raggi X. Il problema è che allora (come anche oggi) non era facile convincere un’agenzia a finanziare una ricerca, anche costosa come quella che coinvolge l’impiego di un razzo, solo sulla base di intuizioni o congetture, per quanto assolutamente plausibili.

Il colpo di genio fu sfruttare il neonato interesse per la Luna. Nel 1961 il Presidente Kennedy aveva lanciato il programma per raggiungere la Luna entro il decennio, e lo aveva finanziato pesantemente. Giacconi e Rossi proposero quindi un esperimento per osservare la radiazione solare X riflessa dalla luna. Il livello di riflessione (albedo in gergo tecnico) ci poteva dire qualcosa sulla composizione del suolo lunare. La proposta fu approvata e finanziata. I primi due esperimenti tentati fallirono, il primo per l’esplosione del razzo il secondo per malfunzionamenti dei rivelatori. Come racconta Giacconi questa fu’ in realtà una fortuna, perché gli strumenti imbarcati erano davvero troppo rudimentali e non avrebbero permesso quello che venne osservato nel terzo esperimento. Il 12 giugno 1962 un sounding rocket portò una serie di strumenti sensibili alla radiazione X fino ad una quota di circa 230 km, fuori dall’atmosfera, dove poterono osservare il cosmo in raggi X per qualche minuto, prima di ricadere assieme al razzo sulla Terra. Il razzo era stato posto in rotazione, così che gli strumenti potessero fare uno scan di una grossa fetta di cielo, che includeva naturalmente la Luna.

La figura sopra mostra il risultato dell’esperimento. Due dei tre rivelatori funzionarono egregiamente, e i dati raccolti sono rappresentati dai punti vuoti e pieni. Si vede come i conteggi raggiungono un massimo in corrispondenza di un angolo di circa 190 gradi, e la direzione di questa regione è spostata da quella della Luna. Non è quindi la Luna la responsabile dell’emissione rivelata. Giacconi, Rossi e collaboratori scrivono che se la sorgente responsabile fosse una stella vicina, allora l’emissione X da questa stella doveva essere 10-100 milioni di volte più intensa di quella del Sole. Ma la scoperta forse più importante non fu questa, che pure apriva di fatto una nuova astrofisica in raggi X: esistono sorgenti X molto ma molto più brillanti del sole, e queste debbono pure essere comuni, se alla prima osservazione se ne è vista almeno una (in realtà, si scopri più tardi che Giacconi e collaboratori furono eccezionalmente fortunati, la sorgente X che era entrata nel campo di vista dei loro strumenti era Sco-X1, una delle sorgenti più brillanti del cielo in raggi X!) La scoperta più importante fu che il flusso a destra e a sinistra del picco non andava a zero ma rimaneva a un livello molto altro. Molto più alto del fondo che era stato misurato quando gli strumenti erano ancora chiusi ma accesi durante la salita del razzo.  Questo flusso molto alto era il fondo cosmico in raggi X, che, scoperto nel 1962, è stato il primo fondo cosmico ad essere scoperto, due anni prima del fondo cosmico a microonde scoperto da Penzias e Wilson nel 1964. Cosa poteva essere questa potente emissione?

Giacconi è convinto che il fondo cosmico in raggi X fosse dovuto alla sovrapposizione della luce in raggi X prodotta da singole sorgenti cosmiche. L’esperimento del 1962 forniva una stima anche abbastanza accurata della quantità totale di questa luce per unità di angolo solido. Supponendo che questa sia prodotta da sorgenti di flusso diverso e che il numero di queste sorgenti scali con il flusso con una legge di potenza con esponente circa -1.5 (ovvero che le sorgenti più deboli siano molto più comuni di quelle brillanti, una cosa del tutto naturale se si pensa che le sorgenti più deboli sono anche in media quelle più lontane, e a parità di densità anche di gran lunga le più comuni dato che il loro numero deve scalare con il volume, e quindi con il cubo del raggio. Un conto preciso e anche facile mostra che per densità costanti e geometria euclidea il numero di sorgenti deve appunto scalare come il flusso-1.5. Utilizzando la corretta geometria per un universo in espansione l’indice di potenza diventa un poco più piatto, vicino a -1, a bassi flussi, che corrispondono a grandi distanze, e quindi a un Universo più piccolo di quello odierno.) Giacconi può quindi stimare sulla base delle sue osservazioni e di queste semplici considerazioni quante sorgenti X per grado quadro ci devono essere nel cielo fino a un certo flusso X per spiegare il fondo osservato. Questo numero è rozzamente tra 10000 e 30000 per grado quadro fino a un flusso circa 1 milionesimo del flusso del fondo X misurato per grado quadro. Confermare questa ipotesi significa dover sviluppare uno strumento in grado di migliorare di circa un milione di volte la sensibilità dello strumento del 1962 e soprattutto con un potere risolutivo tale da separare sorgenti molto distribuite molto densamente, tra 3 e 10 per arco-minuto quadro. Ovvero una risoluzione vicina all’arco-secondo. La tecnologia dell’epoca non era assolutamente adatta ad una sfida di questo tipo. Immagini nei raggi X erano e sono difficili da ottenere, perché i raggi X non vengono riflessi in maniera ordinaria da uno specchio (penetrano nello specchio per poi venirne assorbiti). L’unica maniera di ottenere una riflessione è utilizzare l’incidenza radente, cioè piccoli angoli di riflessione, minori di qualche grado. Come si fa rimbalzare un sasso piatto su una superficie liquida: se il sasso viene lanciato quasi parallelo all’acqua rimbalza, se viene lanciato con angoli minori affonda. Lo stesso per i raggi X. Quindi Giacconi non poteva immaginare un esperimento da poter proporre immediatamente per risolvere il fondo cosmico in raggi X. Poteva solamente tentare di proporre un programma, che sviluppandosi negli anni potesse portare da un lato a migliorare la conoscenza del cielo X e dall’altro a migliorare la tecnologia per arrivare al telescopio in grado di risolvere il problema. Questo telescopio è stato alla fine costruito e lanciato nello spazio nel luglio del 1999 utilizzando lo Space Shuttle. Si chiama Chandra e ha effettivamente una risoluzione spaziale attorno all’arco-secondo e un’area di raccolta che permette di raggiungere flusso circa un milionesimo del flusso del fondo X cosmico per grado quadro. E come previsto e proposto da Giacconi ci si è arrivati per gradi. Il primo gradino è stato il lancio del primo satellite artificiale dedicato completamente alla scienza nel 1971, Uhuru, che significa Libertà in Swahili. Il nome deriva da fatto che Uhuru è stato lanciato il giorno dell’indipendenza del Kenya dalla piattaforma italiana San Marco a largo di Malindi, in Kenya appunto. C’è quindi anche un pezzo di grande storia spaziale italiana nel programma di Giacconi. Uhuru aveva a bordo strumentazione che non permetteva di ottenere immagini, strumentazione quindi concettualmente simile a quella dell’esperimento su razzo del 1962. L’enorme vantaggio era però che le osservazioni non erano limitate dalla durata del lancio, pochi minuti, ma potevano essere ripetute per settimane, mesi, anni. Uhuru quindi scoperse centinaia di sorgenti X, sia nella nostra galassia che in galassie esterne. Queste ultime sono subito state identificate come Nuclei Galattici Attivi (AGN dall’inglese Active Galactic Nuclei), cioè nuclei di galassie che ospitano buchi neri super-massicci. L’emissione X è provocata da materia che viene accelerata violentemente quando viene risucchiata nel buco nero. Oggi Chandra ci ha inequivocabilmente dimostrato che il fondo X cosmico è dovuto per lo più all’emissione di questi AGN, e rappresenta quindi la storia dell’accrescimento di materia su buchi neri. 

Il secondo e terzo gradino sono stati il lancio di HEAO1 e HEAO2 alla fine degli anni 70. Il primo satellite aveva a bordo strumenti simili a quelli di Uhuru ma più grandi e sensibili, e soprattutto pensati per ottenere una stima il più accurata possibile del livello del fondo X cosmico e del suo spettro (ovvero del suo andamento con l’energia). Il secondo, rinominato Einstein Observatory dopo il lancio, ospitava il primo telescopio per raggi X di grande area di raccolta e buona risoluzione angolare (arcominuti). Dal punto di vista tecnologico è stata la dimostrazione che si poteva arrivare ai requisiti richiesti dall’obiettivo di risolvere in sorgenti distinte il fondo X cosmico, dal punto scientifico ha portato alla scoperta di migliaia di sorgenti X di tutti i tipi, dalle sorgenti galattiche come le binarie X (sistemi binari in cui una delle stelle è un oggetto compatto, una nana bianca, una stella di neutroni o un buco nero) le stelle comuni e i resti di supernovae, agli AGN agli ammassi di galassie, dove lo spazio tra le galassie è riempito di gas caldo milioni di gradi che splende nei raggi X. Il quarto gradino è stato quello finale, Chandra.

Ci sono voluti 37 anni dalla scoperta del fondo X cosmico e il lancio di Chandra.  Ma soprattutto c’è voluto un progetto focalizzato su un obiettivo scientifico chiaro e forte. Un progetto guidato esclusivamente dall’ambizione di conoscenza e dalla curiosità e che ha contemplato sviluppi graduali e via via accessibili, sia dal punto di vista tecnologico che da quello del supporto economico e quindi politico. Uno di quei progetti che Bahcall chiamerebbe missioni incredibili.

9.2 La prima istantanea dell’orizzonte degli eventi di un buco nero

Il secondo esempio di ricerca scientifica guidata solamente dalla curiosità e dall’ambizione di conoscenza che voglio citare è connessa alla precedente, ed è quella che ha portato alla prima vera e propria immagine delle regioni più prossime all’orizzonte degli eventi di un buco nero, quello al centro della galassia M87, la galassia gigante al centro dell’ammasso della Vergine. Questa è la galassia gigante più prossima al sistema solare, e fin dalla fine degli anni 40 era nota per dover ospitare nel suo nucleo qualcosa di estremamente esotico e bizzarro. Due gruppi negli Stati Uniti e nel Regno Unito avevano appena perfezionato una nuova tecnica osservativa, quella della interferometria, con la quale i dati raccolti da due o più radiotelescopi posti ad una certa distanza D venivano combinati assieme per formare una pseudo-immagine corrispondente a un telescopio di diametro D. Il vantaggio sta nel fatto che la risoluzione di una immagine dipende inversamente da questa grandezza, per cui tanto più grande è il diametro di un telescopio tanto più acuta è l’immagine prodotta. Ovviamente non è tecnicamente fattibile costruire telescopi o radiotelescopi, antenne, di diametro enorme, ma è possibile mettere in fase i segnali raccolti da tanti telescopi posti a grandi distanze, e con questo trucco costruire immagini di acutezza confrontabile a quella che si sarebbe potuto ottenere con un telescopio monolitico. Utilizzando tecniche interferometriche Bolton e collaboratori negli Stati Uniti e Ryle & Smith nel regno unito identificarono nel 1948-1949 due potenti radio-sorgenti Cen-A e Vir-A con le galassie centrali degli ammassi di galassie del Centauro e della Vergine. Da molti anni sappiamo che questa emissione radio è prodotta da potenti jet che partono dai nuclei delle galassie e si estendono per distanze gigantesche, uscendo dalle galassie stesse ancora con una buona collimazione, almeno nel caso di Cen-A. E da molti anni supponiamo che i jet siano lanciati da buchi neri super-massicci (dove super e proprio super in questo caso, dato che parliamo di miliardi di masse solari) e in forte rotazione. Supponiamo che linee di campo magnetico siano ancorate all’orizzonte degli eventi del buco nero, e che la sua rotazione le attorcigli creando una matassa cosmica. Particelle cariche come gli elettroni e i protoni sono ancorate a viaggiare lungo le linee di campo magnetico, la loro accelerazione produce la luce che noi misuriamo dalla matassa cosmica o meglio dal jet. Nelle frasi precedenti ho sottolineato due parole, sappiamo e supponiamo. Sappiamo che l’emissione radio è associata ai jet perché vediamo i jet, strutture ben collimate e facilmente distinguibili nelle immagini radio. Supponiamo che jet siano originati da buchi neri in rotazione perché da un lato abbiamo a disposizione molte osservazioni che possono essere spiegate al meglio solo dall’esistenza dei buchi neri e dall’altro perché abbiamo sviluppato dei modelli matematici di come si dovrebbe comportare il campo magnetico ancorato all’orizzonte degli eventi di questi buchi nere. Ma nessuno fino allo scorso 10 aprile aveva visto un buco nero o la materia nelle immediate vicinanze.  Quello che caratterizza un buco nero è senza dubbio il così detto orizzonte degli eventi, cioè quella superfice ideale dove l’immenso campo gravitazione riesce a curvare lo spazio-tempo così tanto che la velocità di fuga è pari alla velocità della luce, e quindi da dove neanche la luce può fuggire. In realtà la regione all’interno della quale i fotoni (la luce) non riescono a fuggire si estende anche al di fuori dell’orizzonte degli eventi, fino a raggi circa 5 volte maggiori. Fino a questi raggi i fotoni sono costretti a viaggiare su orbite altamente curvate che non riescono mai ad allontanarsi a una distanza maggiore e ricadono prima o poi verso l’orizzonte degli eventi. A raggi pari a circa 5 volte quello dell’orizzonte degli eventi i fotoni sono viaggiano in orbite quasi stabili attorno al buco nero, e formano i così detti anelli di luce (dall’inglese photon rings). A raggi ancora maggiori fotoni possono scappare all’infinito. Quello che Heino Falcke e collaboratori proposero nel 2000[1] è di tentare di osservare gli anelli di luce e l’ombra del buco nero in un esperimento di interferometria millimetrica, l’esperimento effettuato finalmente nell’aprile 2017, ed è stato poi ripetuto nell’aprile 2018.

M87 è stata proprio il target principale dell’Event Horizon Telescope, EHT. Pur utilizzando la stessa tecnica interferometrica inventata negli anni 40’, queste osservazioni moderne differiscono gigantescamente da quelle pionieristiche di Bolton, Ryle e collaboratori. Due sono le differenze cruciali. Se le antenne dei primi radiotelescopi distavano tra loro poche centinaia di metri, quelle dell’EHT distano migliaia di km, essendo distribuite su tutto il globo terrestre, dall’Europa agli Stati Uniti alle Hawaii al Cile fino al polo sud, creando un telescopio virtuale di diametro confrontabile alla Terra stessa. La seconda differenza è che le prime osservazioni interferometriche usavano onde radio di grande lunghezza d’onda, dell’ordine del metro, mentre le osservazioni EHT usano le micro-onde di circa 1mm. Il motivo è che la risoluzione di una immagine dipende linearmente dalla lunghezza d’onda, più piccola è la lunghezza d’onda migliore è l’acutezza. Utilizzando micro-onde e telescopi a distanza di migliaia di chilometri i ricercatori di EHT hanno raggiunto risoluzioni angolari di 25 micro-arcosecondi, che alla distanza di M87 corrispondono a una risoluzione fisica di circa 60 miliardi di km, o circa 50 volte le dimensioni del nostro sistema solare. Mentre questa dimensione fisica può sembrare grande, è veramente microscopica rispetto alle dimensioni di una galassia (circa un milione di volte più piccola), e solo poco più grande delle dimensioni dell’orizzonte degli eventi di un buco nero super-massiccio, ma, cosa fondamentale, più piccola dell’anello di luce aspettato per il gigantesco buco nero ospitato da M87. Questo è stato di fatto osservato, ed è finito sulle prime pagine di tutti i giornali del 10 e dell’11 aprile 2019[2]. Dalla dimensione e forma dell’anello si è riusciti o si riuscirà a determinare la massa e lo spin (la rotazione) del buco nero, e soprattutto a capire se la Relatività Generale di Einstein descrive adeguatamente le prime osservazioni della storia di una regione così prossima a qualcosa di completamente relativistico come l’orizzonte degli eventi di un buco nero, tanto da osservarne direttamente l’ombra.

L’esperimento e stato ideato all’inizio degli anni 2000 e realmente effettuato una ventina di anni dopo. Come nel caso del fondo cosmico in raggi X, quando l’esperimento venne ideato tutta la tecnologica necessaria per poterlo effettuare non era ancora disponibile, ed è stato necessario immaginare un percorso, che potesse portare al raggiungimento dell’obiettivo. Le stime e le simulazioni effettuate mostravano che per raggiungere la risoluzione necessaria era indispensabile utilizzare un network globale di antenne che coprisse tutta la terra (formando un telescopio virtuale di diametro pari al diametro terrestre di circa 12.000 km), che osservassero a lunghezze d’onda di almeno 1-1.5mm. Osservazioni millimetriche sono complicate, perché’ l’atmosfera a queste lunghezze d’onda non è trasparente, ma mostra molte e profonde bande di assorbimento, perché la superficie delle antenne dei radio-telescopi deve mantenere una forma precisa entro almeno 1/30 di mm, e perché’ la strumentazione ha bisogno di essere raffreddata fino a temperature di solo qualche grado Kelvin (a circa -270 gradi centigradi). Il progetto ha dovuto aspettare che il più grande radio-telescopio del mondo nella banda del millimetrico e del sub-millimetrico, l’Atacama Large Millimiter Array, ALMA, venisse completato ed entrasse in funzione. ALMA è composto da una sessantina di antenne di diametro di circa 12 metri posto nel deserto ci Atacama in Cile ad una altezza di più di 5000 metri sul livello del mare. ETH oltre al ALMA ha utilizzato altri 7 radiotelescopi in Europa, Arizona, Hawaii, Messico e al Polo Sud. In diversi casi il progetto EHT ha sviluppato la strumentazione adatta alle osservazioni che su qualcuno di questi siti non era disponibile.

Lavorare in modalità interferometrica richiede di riuscire a mettere in fase segnali raccolti da tanti osservatori diversi, distanti migliaia di km. Questo richiede un’altissima accuratezza nella sincronizzazione dei segnali. Bisogna essere sicuri che ogni telescopio misuri esattamente lo stesso tempo di ogni altro telescopio durante tutto il tempo di integrazione. Oggi il sistema GPS offre la possibilità di ottenere un tempo assoluto di rifermento con una accuratezza fino a circa 10 nano-secondi permettendo di allineare le serie temporali provenienti dai vari telescopi con questa accuratezza. La turbolenza dell’atmosfera terrestre produce però uno sfasamento tra i fronti d’onda, distruggendo la possibilità di fare interferometria su tempi scala maggiori di quelli tipici della turbolenza. Questi tempi scala si riducono all’aumentare della frequenza, e quindi i ricercatori di EHT hanno dovuto lavorare con integrazioni molto brevi, circa 10 secondi, ripetute per migliaia di volte. La quantità di dati generata dalle osservazioni, che si protraggono per circa una settimana in ciascuno dei periodi osservativi è stata quindi gigantesca, impossibile tra trasportare anche su reti veloci. I dati sono stati raccolti su hard-disk su ogni radiotelescopio e poi e portati al sito dove sono stati correlati prima e analizzati poi. Quest’anno, il 2020, il run osservativo di aprile è stato cancellato a causa dell’emergenza sanitaria mondiale per il Covid-19. Speriamo che il prossimo anno si possano raccogliere nuovi dati, magari migliori dei precedenti, e si possa davvero aprire una nuova finestra letteralmente sull’abisso. E chissà che guardando nel buio non si trovi qualche sorpresa. Dopo tutto, nessuno ci ha mai guardato prima così vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero.


[1] https://www.youtube.com/watch?v=H08tGjXNHO4

[2] Falcke, Melia & Agol 2000, The Astrophysical Journal Letter 528, L13

[3]  The Event Horizon Telescope Collaboration, The Astrophysical Journal Letters, 875:L1