Prologo

Se i risultati scientifici finanziati con i soldi dei contribuenti sono “beni pubblici”, è utile o addirittura etico spendere miliardi per cercare una particella elementare? O per andare a visitare un satellite di Giove o cercare l’acqua su Marte? O per osservare una galassia ai confini dell’Universo? In altre parole, è utile finanziare la ricerca di base? E se sì, con che risorse? E per fare quale ricerca?

Queste sono domande che qualsiasi scienziato che si sia avventurato a fare una presentazione davanti ad un pubblico comune si è sentito fare. O più semplicemente sono le domande che ci fanno i nostri amici non scienziati, magari dopo qualche bicchiere. E sono domande che da qualche anno, e in forma anche molto più aggressiva, circolano normalmente sui social networks.  Qualche anno fa, era il settembre del 2015, la NASA annunciò la scoperta di acqua salata sulla superficie di Marte, o meglio, la comparsa stagionale di strisce di terra bagnata su alcuni pendii. Sui social network la notizia venne accolta da raffiche di commenti indignati, del tipo: “assurdo spendere soldi per cercare l’acqua su Marte quando qui sulla Terra milioni di persone soffrono la sete! Con i soldi spesi per Marte si potevano costruire pozzi in Africa”. Il tutto accompagnato da foto di bambini africani denutriti che cercavano di bere da pozze d’acqua sporca. Non sto certo scoprendo qui l’effetto di amplificazione esponenziale di qualsiasi punto di vista, e specialmente di quelli più estremi, che la rete produce, voglio solo enfatizzare che questa amplificazione oggi è il motore principale di quella che una volta si chiamava “opinione pubblica”. Se venti o quaranta anni fa l’opinione pubblica si formava (qualcuno avrebbe detto condizionava) tramite le televisioni, il famoso “effetto B.”, oggi si forma sui social. E chiunque circoli un poco in rete capisce subito che oggi la scienza non gode certo di buona pubblicità sui social, o di vasto e generalizzato supporto pubblico. Gli scienziati sono visti come manipolatori al servizio delle multinazionali e/o dei poteri forti, o, bene che vada, come gente che sperpera i soldi dei contribuenti. Lo ha sintetizzato molto bene il Deputato della Repubblica Daniele Bellotti che nella primavera del 2019, durante una riunione della Commissione Cultura dove si discuteva del riparto del fondo destinato agli enti di ricerca italiani, ha affermato: “Questa è l’ultima vota che approvo un decreto ministeriale di questo tipo, non possiamo più continuare a finanziare poltronifici dove non si fa una mazza!”.  

L’odierna polemica infinita sui vaccini non è che l’ultimo esempio di diffidenza e ostilità verso chi ha perso il suo tempo a studiare, e così facendo si crede superiore, snob si sarebbe detto qualche decennio fa, a chi il proprio tempo l’ha dedicato ad altri tipi di attività, che siano queste lavoro o gioco non fa differenza. Da qui, a sostenere che gli scienziati non fanno altro che formare una sorta di casta, che si riempie la pancia sfruttando il sudore della gente il passo è breve.  Il concetto lo esprime bene Davide Barillari, consigliere in Regione Lazio: “La politica viene prima della scienza. I politici devono ascoltare la scienza, non farsi ordinare dalla scienza cosa è giusto e cosa è sbagliato, accettando le parole della scienza mainstream come dogmi religiosi. Perché la scienza deve essere democratica, e quindi deve ascoltare tutti… compresi ricercatori e scienziati, che con dati alla mano, contestano il dogma ufficiale”.  Nulla di particolarmente nuovo o originale. Dopo tutto, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump il 27 novembre 2018 ha respinto uno studio prodotto dalla sua stessa amministrazione, coinvolgendo 13 agenzie federali e oltre 300 scienziati del clima, studio che avvertiva dell’impatto potenzialmente catastrofico dei cambiamenti climatici, semplicemente dichiarando “I do not believe it”, io non ci credo. Con buona pace degli scienziati e del metodo scientifico.

Oggi la politica (quella che viene prima della scienza) esalta il popolo come depositario di valori totalmente positivi (definizione Treccani di populismo), e visto che l’opinione pubblica, l’opinione del popolo, si forma sui social, il cerchio (mortifero per uno scienziato) è chiuso. E il Prologo, e con esso anche il resto di queste pagine, potrebbe finire qui, meglio chiudersi in ufficio o in casa, staccare il cellulare, possibilmente anche la rete, e, prima di riaccenderli, cercare di capire come mascherarsi al meglio nel mondo connesso, e tirare a campare. E invece no. Il fatto che Aureliano Buendia abbia preso parte a trentuno rivoluzioni armate e le abbia perse tutte non lo fece desistere dal prendere parte, e purtroppo per lui perdere, anche alla trentaduesima. E’ che spesso e volentieri a noi scienziati fa un poco comodo non sporcarsi le mani, non replicare alle castronerie propagandate dai social (o dalla stampa o dalla televisione, i produttori di castronerie sono sempre stati e sempre saranno tra noi). Siamo sempre, dopo tutto, poveri cristi, intenti a sbarcare il lunario come tutti, e solo questo semplice fatto dovrebbe rassicurare quel popolo di internet che ci vede come manipolatori al soldo di multinazionali: anche manipolare costa fatica! In questo momento invece sembra da parte nostra più necessario di sempre riflettere sulle domande all’inizio di questo capitolo, riflettendoci sopra, e magari fare anche un poco di sana autocritica, che non guasta mai.

Le risposte che normalmente diamo a queste domande sono di due tipi. La prima è che la ricerca e la scienza in realtà costano poco. Il budget annuale di una Università media o di un istituto di ricerca importante e che impiega un migliaio di persone come l’Istituto Nazionale di AstroFisica, INAF, del quale faccio parte, è di circa 100 milioni di Euro all’anno (circa un ventesimo di quel fondo destinato agli enti di ricerca che l’onorevole Belotti contestava). E 100 milioni di Euro è grossomodo il costo di un singolo caccia multiruolo come l’F35. Gli Stati Uniti hanno pagato una bolletta di circa 1600 miliardi di dollari per le guerre in Iraq e Afghanistan dal settembre  2001 a fine 2014[1], ovvero circa 280 milioni di Euro al giorno per 14 anni. L’intero budget per l’Università e la ricerca in Italia in un anno (sia pubblica che privata) è di circa 25 miliardi di Euro[2], ed equivale quindi al costo di circa 3 mesi di guerra. Il presidente Kennedy nel famoso discorso alla Rice University del 1962 dove annunciava il proposito di sbarcare sulla luna entro quel decennio disse: “…tutto ciò ci costerà un bel po’ di soldi. Il budget spaziale di quest’anno ammonta a 5.400 milioni di dollari – una cifra sbalorditiva, anche se un po’ meno di quanto paghiamo per sigarette e sigari ogni anno. 50 centesimi a settimana per ogni uomo, donna e bambino negli Stati Uniti.”

La seconda risposta è che scienza, o meglio “Big Science”, oggi significa grandi infrastrutture, del costo di miliardi di Euro, o addirittura decine di miliardi di Euro, che a sua volta significano grandi contratti per l’industria. Un esempio evidente è il contratto da circa 400 milioni di Euro che l’European Southern Observatory (ESO) ha fatto al consorzio di aziende italiane Astaldi-Cimolai-EIE per la realizzazione della cupola e della struttura del più grande telescopio al mondo, l’E-ELT (European Extremely Large Telescope), in costruzione in Cile. E grandi contratti significano anche tanti posti di lavoro, soldi di cui alla fine anche il popolo può godere.

Queste due tipologie di argomenti sono certamente molto vere e molto giuste. Ma sono anche non del tutto soddisfacenti. Perché sono difensive. Non mettono la Scienza in primo piano, non entrano nel merito delle scelte.  E quindi non ci dicono gran che’ su quale scienza è veramente utile e quale magari meno.

Una discussione che invece voglia entrare nel merito non può non prendere in considerazione due delle caratteristiche principali della scienza in questo millennio. La prima è che la scienza oggi è sempre più “big science”, che significa grandi infrastrutture, grandi progetti, grandi finanziamenti, grandi numeri di scienziati. Siamo sicuri che almeno per quanto riguarda la scienza “grande è sempre meglio”? La seconda è che il modello oggi più affermato per fare scienza è quello competition-driven. Cioè il modello per il quale gli scienziati competono per fondi, per posizioni, per progetti, per carriera. Siamo sicuri che questi due modelli siano davvero i più adatti e efficienti per fornire oggi scienza d’avvero utile?

Di più, noi scienziati da almeno 400 anni adottiamo più o meno lo stesso metodo per fare scienza, quello inventato da Galileo all’inizio del diciassettesimo secolo. Il metodo ha resistito nel tempo, anche attraverso modifiche significative, a innumerevoli cambiamenti, rivoluzioni, guerre e anche a ben tre rivoluzioni industriali. Siamo sicuri che questo metodo sia ancora valido e applicabile oggi durante la quarta rivoluzione industriale? Quella in cui tutto è connesso con il resto, non solo noi esseri umani ma anche tutte le cose che ci circondano, dove tutta la nostra ecosfera è permeata da una enorme rete informatica, e dove la rete informatica alla fine diventa essa stessa una ecosfera[3]. Nel corso di queste pagine cercheremo delle risposte a tutte queste domande. Cercando soluzioni ai quesiti iniziali, i più facili, vedremo che queste genereranno altrettante domande, ma più profonde e quindi più complicate da affrontare delle precedenti, e così via. La soluzione completa di tutti questi problemi è intrinsecamente complessa e quindi anche sfuggente. Alla fine, scavando scavando, siamo in grado di convincerci e convincere che al tempo della grande ecosfera informatica è veramente utile fare scienza? O che serviremo noi scienziati e scienziate per fare scienza utile?


Prossima pubblicazione: 12 gennaio 2019. 1. Il dibattito classico, l’utilita’ della scienza inutile


[1] Congressional Research Service, https://fas.org/sgp/crs/natsec/RL33110.pdf

[2] OECD Science technology and innovation outlook 2016, http://www.oecd.org/sti/oecd-science-technology-and-innovation-outlook-25186167.htm

[3]concetto anticipato in molta della letteratura Cyberpunk a cominciare dagli anni 80’, in molta cinematografia anni 90’, ed espresso oggi in film come Ready Player One, di Steven Spielberg.