5. Big Science

La big science ha una data di nascita precisa, il 11 ottobre 1939, la nascita di quello che divenne il progetto Manhattan. Quell’11 ottobre Sachs consegnò al presidente americano Franklin Delano Roosevelt una lettera scritta da Albert Einstein e Leo Szilard, dove si spiegava che con l’energia nucleare si poteva produrre energia e costruire bombe eccezionalmente potenti. In pochi anni il progetto Manhattan arrivò ad impiegare 130.000 scienziati e a costare miliardi di dollari. I risultati li conosciamo tutti, la pila di Fermi, le bombe a fissione nucleare di Hiroshima e Nagasaki.

Altri due eventi resero esponenziale la crescita della Big Science e il suo finanziamento, entrambe determinati dalla guerra fredda. Il 29 agosto 1949 l’Unione sovietica detonò la prima bomba atomica prodotta oltrecortina. Questa sfruttava le idee per molti versi geniali di Sakharov, che portarono rapidamente allo sviluppo di ordigni molto più potenti, le bombe termo-nucleari, anche migliaia di volte più potenti di quella della bomba di Hiroshima. Gli Stati Uniti diedero un nuovo forte impulso allo sviluppo dell’ordigno termo-nucleare ed esplosero la loro prima bomba termo-nucleare nel novembre 1952. Il costo totale dello sviluppo del programma atomico statunitense dagli anni ‘50 alla fine degli anni ‘90 è stato di diversi trilioni di $, maggiore, ad esempio, del debito pubblico dell’Italia, o una frazione di circa il 20% dell’attuale debito pubblico statunitense. Negli anni ’50 e ’60 circa la metà di tutti i ricercatori negli Stati Uniti lavorava per programmi connessi con la difesa.

Il secondo evento risale al 4 ottobre 1957. L’Unione Sovietica mette in orbita il primo satellite artificiale della storia, lo Sputnik-1. Un micro-satellite con un solo strumento a bordo, un trasmettitore radio primitivo, che emette solo un debole bip-bip, ma lo fa su frequenze accessibili a tutti, radioamatori inclusi. Il messaggio è quindi chiarissimo: abbiamo vettori che possono portare le nostre bombe sulle vostre teste. A dicembre 1958 i sovietici però lanciano il loro secondo satellite artificiale, lo Sputnik-2, questa volta molto più grosso, pesa circa due tonnellate, e complesso del precedente. Ospita a bordo addirittura un cane, la famosa cagnetta Laika. Gli Stati Uniti reagiscono e il 29 luglio 1958 nasce la NASA, come agenzia spaziale civile. Nell’ottobre 1958 i sovietici raggiungono per la prima volta la Luna, e ci portano circa mezza tonnellata di strumenti. Il 12 aprile 1961 il primo essere umano, il tenente dell’aviazione sovietica Yuri Gagarin, raggiunge lo spazio. Da li parte la corsa allo spazio che porterà al primo allunaggio da parte di astronauti statunitensi il 20 luglio 1969. Il motivo trainante della sfida spaziale statunitense e’ certamente politico, vincere la sfida con l’Unione Sovietica. Ma ci sono anche motivazioni più profonde, espresse bene nel famoso discorso del Presidente Kennedy alla Rice University il 12 settembre 1962: scegliamo di andare sulla Luna non perché sia facile, ma proprio perché è difficile. Questa sfida servirà ad organizzare e misurare al meglio le nostre energie e le nostre abilità. La nostra scienza e educazione sarà arricchita dalla nuova conoscenza del nostro Universo e ambiente, dalle nuove tecniche per imparare e organizzare le osservazioni, dai nuovi strumenti e computers per l’industria, per la medicina, per la casa e per la scuola.

Il progetto Apollo è stato certamente un Big Project ma ha prodotto anche Big Science, Il numero di articoli scientifici prodotti dal progetto Apollo è tra i 3000 e i 4000, circa 6 volte maggiore del numero di articoli prodotto da tutti i rover che hanno visitato e visitano Marte, circa il doppio degli articoli prodotti da ricerche condotte sulla Stazione Spaziale Internazionale, il cui costo totale è simile se non maggiore a quello del progetto Apollo. Ma forse il lascito piu’ importante del progetto Apollo è stato il ‘Moonshot thinking’, il concetto che è alla base della Big Science. Cosa è il Moonshot thinking lo spiega bene il secondo Teller di questa storia, Astro Teller, direttore dei laboratori Google-X: Il Moonshot è un modo di pensare, non è soltanto, come potrebbe apparire, una versione moderna del ‘pensare in grande’. Per essere un ‘moonshot’ il progetto deve affrontare un grande problema. E non basta, perché a far questo basterebbe la religione, abbracciamoci tutti, e le cose cambiano. No, deve offrire una soluzione radicale in cui dobbiamo credere, deve avere qualche scoperta scientifica o tecnica che ci faccia pensare che sia possibile arrivarci. E non basta ancora, perché dipende da come la storia viene raccontata. Per fare Big Science serve uno scopo di alto livello, un grande problema da risolvere, serve una tecnologia adeguata che renda possibile raggiungere lo scopo, e serve una narrazione efficiente che permetta il coinvolgimento positivo da parte della società. Il concetto è stato ulteriormente sviluppato ed estremizzato recentemente. Safi Bahcall, il figlio di John e Neta Bahchall, due famosi astrofisici del secolo passato parla di “loonshots”, idee pazze o sconsiderate[1]. Secondo Bahcall, le scoperte più significative derivano infatti da idee pazze e sconsiderate, piuttosto che dalle idee più comuni, che chiama “franchising”. Idee che sembrano folli e che quindi sono spesso respinte, etichettando chiunque le difendesse come svitato. Tornerò su questo punto fondamentale nei prossimi capitoli.

Lo Hubble Space Telescope sicuramente ha fatto e fa tanta Big Science. È costato molto (in totale circa otto miliardi di $), ci hanno lavorato e ci lavorano migliaia di scienziati, tecnici, ingegneri, e ha messo a disposizione una tecnologia innovativa per affrontare problemi di alto livello. HST è stato tra i protagonisti della scoperta dell’espansione accelerata dell’Universo, ed ha contribuito quindi alla ricerca che ha prodotto il premio Nobel in Fisica nel 2011 a Saul Perlmutter, Brian P. Schmidt e Adam Riess. La popolarità di HST nell’opinione pubblica mondiale è sicuramente enorme, grazie ad una riuscitissima politica di outreach da parte della NASA.

Sono Big Projects che hanno fatto Big Science gli acceleratori di particelle, che dagli anni 60 fino a oggi hanno permesso quella incredibile cavalcata trionfale che è stata la conferma del Modello Standard per le particelle elementari (questa storia è raccontata in moltissimi libri e pubblicazioni, si veda ad esempio il libro di Frank Close[2] e la bibliografia li citata). Il Modello Standard è stato sviluppato dagli anni ’50 agli anni ’70 e che ha trovato via via conferme spettacolari come la scoperta dei bosoni vettoriali intermedi da parte del super-proto-sincrotrone del CERN, la scoperta dei quark fino al più pesante il quark Top da parte del FermiLab a Chigago, fino all’ultimo tassello, la rivelazione del bosone di Higgs da parte dell’LHC al CERN.

Fanno certamente parte della Big Science gli interferometri gravitazionali Ligo e Virgo, entrambe progetti visionari, complessi, costosi e che hanno visto la partecipazione di migliaia di addetti, sia al livello tecnologico che dello sfruttamento scientifico dei dati. E hanno permesso di osservare direttamente le tenui increspature dello spazio-tempo che chiamiamo onde gravitazionali, offendo una nuova finestra per la nostra investigazione del Cosmo (nel seguito un capitolo sarà dedicato a raccontare questa storia).

È sicuramente un Big Project l’European Extremely Large Telescope (E-ELT), citato nel Prologo, con un costo maggiore di un miliardo di Euro, il coinvolgimento di migliaia di scienziati, tecnici ed ingegneri in più di venti nazioni Europee. E con tutta probabilità E-ELT produrrà Big Science. E-ELT è stato pensato e progettato per studiare le prime galassie che si sono formate nella storia dell’Universo, per studiare le atmosfere dei pianeti che pullulano attorno alla maggior parte delle stelle che vediamo splendere nel cielo, e capire se quelle atmosfere presentano tracciatori di Vita.

Contratti come quello citato nel Prologo di ESO verso un consorzio di aziende italiane per l’elemento principale di E-ELT significano sfide tecnologiche avanzate e conseguenti sviluppi strategici nel campo dell’ingegneria edile, nonché posti di lavoro per le aziende e per il territorio coinvolto. Contratti del valore così alto (mezzo miliardo di $) hanno però un naturale risvolto della medaglia. Possono anche indurre appetiti nel sistema industriale, tali da influenzare i processi stessi con cui si sceglie quali grandi infrastrutture scientifiche realizzare. Non è questo il caso di E-ELT perché’ alla radice della sua concezione ci sono problemi fondamentali, molti dei quali rientrano nella nostra ricerca delle nostre Origini: quali sono le origini dell’Universo visibile? Quale l’origine della vita? Ci si è posti poi il problema se e come la tecnologia potesse permettere di affrontare questi problemi e si sono individuate le soluzioni che hanno portato al concepimento di E-ELT.

Non tutti i Big Projects hanno prodotto, producono o produrranno Big Science. Ci sono quelli che semplicemente falliscono, perché il rischio è un elemento ineliminabile quando si voglia fare Scienza con la S maiuscola. Ci sono poi quelli che nascono vecchi, cioè che pur essendo concepiti seguendo il primato della scienza, vengono preceduti da altri progetti in competizione, e vengono in tutto o in parte spogliati da questi. Ci sono infine quelli che nascono per interessi che sono collaterali alla scienza, interessi politici o industriali. Apollo è certamente nato per un interesse primariamente politico. È nato come Big Project, ma ha prodotto anche Big Science. Altri Big Projects nati da interessi politici e/o industriali hanno avuto meno successo dal punto di vista scientifico.

Per garantire il primato della scienza in tutti questi processi e massimizzare il ritorno scientifico dai Big Projects in modo che possano fornire Big Science ci sono solo due antidoti: l’autorevolezza della comunità scientifica di riferimento, e gli anticorpi che si sviluppano in questa tramite l’applicazione costante di processi di selezione condivisi, consolidati e trasparenti.

La Big Science oggi include la gran parte della ricerca scientifica, sicuramente in termini di fondi, e di scienziati e tecnici addetti. Che la Big Science sia eccezionalmente di successo non è, credo, neanche questionabile. Una domanda che però ci si può porre è se Big Science sia sufficiente a riempire tutto il panorama della ricerca. Se serva o sia ancora proponibile una Little Science. Quale sia il rapporto ottimale tra Big e Little Science.

Uno dei problemi della Big Science è che per definizione costa parecchio. La costruzione di un acceleratore di particelle come LHC è costata dell’ordine dei 10 miliardi di $, più o meno il prezzo del nuovo telescopio spaziale JWST. In genere, per aprire nuovi spazi di scoperta uno strumento, una macchina, un osservatorio, devono avere capacità almeno 5-10 volte migliori del precedente. È oggi ragionevole pensare realisticamente a macchine dalla capacità un ordine di grandezza migliore di LHC e JWST? E del costo proporzionalmente maggiore? Probabilmente no, almeno nel mondo occidentale. È probabile che la scienza occidentale abbia raggiunto una saturazione, dal punto di vista delle risorse che si possono investire su un singolo progetto.

Il caso di JWST è emblematico. JWST è lo strumento spaziale di gran lunga più complicato che sia mai stato concepito. Un telescopio da 6.5 metri di diametro, ripiegabile, protetto da schermi termici grandi quanto un campo di tennis. Un telescopio che viene lanciato ripiegato su sé stesso e che si deve quindi aprire una volta fuori dall’atmosfera e dal campo gravitazionale terrestri, schermi termici che si devono dispiegare nello spazio, quando il satellite viaggerà verso il punto Lagrangiano L2. Tutto il processo di montaggio automatico nello spazio ha del miracoloso. È una danza tecnologica spaziale, meravigliosa, ma altrettanto pericolosa. Basta che uno solo delle molte decine di passi non risulti esattamente perfetto e tutta la missione è a rischio. Consiglio vivamente di dare un occhio a questo video[3].

HST, LHC o JWST sono macchine generaliste. Sono progettate per poter soddisfare molte esigenze scientifiche. Una delle possibili vie d’uscita per i successori è la diversificazione. Macchine più semplici, che non ambiscano a fare tutto, ma che siano focalizzate ad affrontare una o poche esigenze scientifiche specifiche. Questo da un lato potrebbe ridurre i costi, e dall’altro sicuramente ridurrebbe i rischi, tramite la moltiplicazione delle macchine e degli esperimenti. Qualcuno potrà anche andare male, dopo tutto la scienza è un risky bussiness, ma altri potranno avere successo.

Un altro dei problemi della Big Science è che progetti che per definizione sono big, impiegano centinaia, spesso migliaia di ricercatori. La stragrande maggioranza di questi ricercatori non ha la visione globale dei progetti, essendo impegnata nella risoluzione di un problema specifico. I giovani ricercatori che si inseriscono un grande progetto sicuramente non hanno partecipato all’ideazione, non hanno partecipato alla definizione del profilo del progetto, forse parteciperanno allo sfruttamento scientifico, ma difficilmente per le parti che sono core science, e cioè quelle fondamentali, per le quali lo strumento è stato concepito e costruito. Il risultato è che migliaia di giovani ricercatori impiegano la maggior parte del loro tempo a fare quello che pochi dirigenti senior ha deciso per loro. Si ritiene che il periodo più creativo per uno scienziato siano gli anni subito successivi al dottorato di ricerca, e comunque tra i trenta e i quaranta anni. Curiosamente, oggi pochissimi scienziati hanno la possibilità di fare lavori veramente creativi durante il loro periodo più creativo. Perché prima sono impegnati a fare una ricerca che gli possa garantire un posto di lavoro stabile, vedi capitolo precedente, e poi perché entrando in un grande progetto la loro ricerca è spesso limitata, nel vero senso della parola, cioè confinata entro recinti stretti, pure se profondi.


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Prossima pubblicazione: 16 febbraio 2020. 6. Spazio (4.0): l’ultima frontiera


[1] Safi Bahcall, Idee folli, 2019 ROI Edizioni

[2] Frank Close, The infinity puzzle, 2013, Basic Books

[3] https://www.youtube.com/watch?v=v6ihVeEoUdo

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