10. Una nuova forza propulsiva per la ricerca

Gli esempi discussi nei due capitoli precedenti fanno parte della scienza guidata da immaginazione, curiosità, e ambizione di conoscenza. Entrambe sono partiti dall’ambizione di risolvere un problema scientifico cruciale, e hanno immaginato e perseguito un percorso, magari anche lungo e complicato, per raggiungere lo scopo. Accanto alle tradizionali forze propulsive per la ricerca da qualche decennio una nuova forza sta emergendo con prepotentemente: la competizione.

I ricercatori oggi competono per i dati, competono per i fondi, competono per ottenere una posizione nelle Università o negli Istituti di Ricerca e nelle aziende private, competono per migliorare questa posizione. La loro stessa semplice attività è determinata dalla vittoria o meno nella competizione.

I motivi dell’affermarsi della competizione nella ricerca sono molti, non ultimo il fatto che mentre il numero di ricercatori cresce molto, le risorse a loro disposizione crescono meno (almeno in Europa, come abbiamo discusso nel capitolo quarto). Per di più la maggior parte delle risorse sono assorbite dai Grandi Progetti, e quindi quando si calcola il costo medio di un ricercatore, questo non rappresenta il volume di finanziamenti di cui ogni ricercatore dispone. Questo volume è molto minore, una volta eliminata dalla media il costo enorme dei Grandi Progetti. In ogni ecosistema di questo tipo dove aumenta il numero degli individui e diminuiscono le risorse per individuo, si genera una lotta Darwiniana per la sopravvivenza, solo la specie più adatta viene selezionata e sopravvive. Ma il ricercatore più adatto a questo sistema, è anche quello che produce i risultati più importanti? In altre parole, siamo sicuri che il modello competition-driven sia davvero quello migliore per fare scienza utile?

Il ricercatore che sopravvive meglio nel sistema competition-driven è quello che in media pubblica un numero maggiore di articoli, e che riesce ad attrarre il numero maggiore di citazioni. Questo succede quando un ricercatore lavora su problemi facili, oppure in un grande progetto o in un settore alla moda, nel cosi detto mainstream, che attira l’attenzione di una platea il più grande possibile.

La necessità di competere per fondi e per carriera, produce quindi la necessità di pubblicare freneticamente, privilegiando i problemi semplici e alla moda, che sono più facilmente quelli incrementali nel diagramma di Kalbach presentato nell’ottavo capitolo. Questo significa che vengono sistematicamente tralasciati o comunque poco investigati i problemi più complessi e quindi rischiosi, dal punto di vista della sopravvivenza nell’ecosistema ricerca. I problemi che richiedono troppi anni di lavoro, e quelli lontani dalla moda. Non riesco qui ad evitare di citare Gianni Rodari:

È difficile fare le cose difficili

parlare al sordo,

mostrare la rosa al cieco.

Bambini, imparate a fare le cose difficili:

dare la mano al cieco,

cantare al sordo,

liberare gli schiavi che si credono liberi.

Ecco, gli scienziati dovrebbero fare come i bambini, imparare sempre a fare le cose difficili! E invece il modello di ricerca competition-driven li invoglia a fare le cose meno rischiose e più semplici. Il risultato netto è che la ricerca sta diventando sempre meno un risky bussiness. Un detto popolare recita: sbagliando si impara, concetto talmente semplice e naturale che viene ripreso persino dal Maestro Yoda quando recita: The greatest teacher failure is[1]. E invece i ricercatori si possono permettere di sbagliare pochissimo o niente, e quindi di imparare corrispondentemente poco. Un Grande Progetto è fondamentale che non fallisca, è costato enormemente, sia in termini di fondi che di risorse umane. Un fallimento metterebbe a rischio l’intero settore di ricerca collegato a quel progetto. Dall’altro lato, neanche una semplice ricerca, per quanto incrementale, di un semplice ricercatore è bene che non fallisca nel sistema competition-driven nel quale viviamo, perché’ genererebbe meno pubblicazioni meno citazioni e quindi meno possibilità di affermazione e meno fondi.

Competizione per fondi significa orientare il finanziamento verso progetti specifici, tipicamente di breve durata (tre, cinque anni). Questo implica poi finanziare posizioni precarie, della stessa durata, spesso pagate male, e sempre molto volatili, un concetto tanto semplice e chiaro che viene espresso in autorevoli pubblicazioni[2] e saggi[3].

Il premio Nobel Saul Perlmutter ha di recente affermato: “Non avrei potuto effettuare le mie ricerche che hanno portato al premio Nobel nell’attuale sistema di finanziamento della ricerca”. L’altro premio Nobel Kip Thorne aggiunge: “Oggi non sarebbe facile convincere il governo a finanziare un progetto come LIGO, la politica non vuole più rischiare grandi avventure scientifiche”.

Che la moda abbia un peso straordinariamente forte lo si vede molto bene in contesti dinamici come quello degli Stati Uniti. Negli anni 80’ e 90’ la stragrande maggioranza delle posizioni in fisica teorica nelle Università statunitensi è andato a teorici delle Stringhe; all’inizio degli anni 2000’ una grande frazione di posizioni osservative in astrofisica era legato ai Gamma Ray Burst. Dieci anni dopo la maggior parte delle posizioni in astrofisica era relativa a studi di pianeti extrasolari. Oggi la moda è cambiata ancora, e la frazione maggiore di posizioni negli Stati Uniti è associata all’astrofisica multi-messaggera di cui ho raccontato nel capitolo precedente. Seguire progetti alla moda garantisce pubblicazioni, citazioni, ma soprattutto garantisce il riconoscimento di chi quei progetti li ha inventati, gli scienziati più senior. E questo riconoscimento si può tradurre in un posto di lavoro e in finanziamenti, perché le commissioni di concorso e le commissioni di valutazione dei progetti sono sempre formate appunto dagli scienziati più senior (e spesso con scarso ricambio). Questo porta naturalmente a un meccanismo di auto-replica dell’esistente, che tende ad esclude il diverso, la persona creativa che voglia seguire semplicemente le proprie intuizioni, rischiare, e magari anche fallire. Se Einstein nel 1900 dovette andare a lavorare all’ufficio brevetti elvetico per seguire le sue intuizioni e la sua ispirazione, oggi non è detto che troverebbe lavoro nemmeno li (o che comunque riuscisse a pubblicare e a farsi leggere dal mainstream). Il premio Nobel per la medicina del 2016 Yoshinori Ōsumi sosteneva: “Non mi piace molto la competizione, e penso che l’essenza della scienza – ciò che la rende davvero così molto divertente — è proprio fare ciò che gli altri non stanno facendo, piuttosto che fare ciò attorno al quale tutti gli altri si stanno affollando e affannando. Un concetto simile a quello espresso dall’altro premi Nobel (per la fisica questa volta) Richard Feynmann, che sosteneva: la scienza è lo scetticismo organizzato nei confronti dell’opinione degli esperti. E questa mi sembra davvero la migliore definizione possibile di scienza.


[1] The last Jedi, 2017

[2] OECD Science & Innovation Outlook 2016

[3] Is American Science in Decline? (2012)

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Prossima pubblicazione: 11. Un esempio, il migliore, di scienza competition driven: il sistema ERC

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